
In realtà ne dovreste aver letto qualcosa anche in questo vecchio articolo, ma di PIGHIN e dei loro Vini necessita scrivere altro.
Purtroppo, anche quest’anno, sono riuscito solo a scambiare poche parole con Raffaela, ma mi impegno sin d’ora a cercare il modo di sedermici ad un tavolo per chiacchierare di emozioni e vini con la dovuta calma.
Quella di oggi non è che la prima proposta (ne seguiranno diverse) di un’Azienda che potreste pensare non rientrare nel “core” dei miei interessi per estensione e capacità produttiva, ma dovete sempre ricordare che bisogna essere davvero bravi per fare, BENE, unmilionedibottiglie!
In ogni caso, l’Azienda PIGHIN, non può non meritare qui un proprio spazio, se non altro per quanto ha rappresentato e rappresenta nel panorama vitivinicolo friulano.
La storia Aziendale inizia nel 1963 con l’acquisto, da parte dei fratelli Luigi, Ercole e Fernando, di 220ha nel cuore delle Grave del Friuli (ma “solo” 160 quelli vitati) cui si aggiungono poco dopo altri 30ha di Collio in quel di Capriva del Friuli.
Grave e Collio, i ciottoli e la ponca, due Territori che si fondono in una sola anima.
Affidare nel 1968 il progetto per la realizzazione della nuova cantina di Risano (frazione di Pavia di Udine) ad una “archistar” come Gino Valle è già segno evidente di quanto l’Azienda guardasse lontano nel tempo e nei modi sin da subito.
E se oggi le sue linee pulite si confondono in un panorama sempre più fitto di capannoni industriali, certo non può passare inosservata quella frase scritta sul muro dell’Azienda e celata nella sua interezza a quanti non abbiano la Curiosità di spingere il naso oltre la porta del wine-shop: “Un uomo non deve mai lasciare la terra come la trova”.
Un aforisma che forse presta il fianco a qualche interpretazione scorretta ma che risulta illuminante quando lo si inserisca in un contesto che miri alla valorizzazione di un Territorio attraverso il profondo Rispetto nei suoi confronti ed all’utilizzo dell’innovazione tecnologica per la produzione di vini che riescano a raccontarlo correttamente.
Solo acciaio (con pochi sgarri alla regola) e la voglia di far parlare il Territorio per mezzo della sola varietalità dei vitigni, imbottigliando emozioni che, messe da parte opulenze e complessità, si caratterizzano per immediatezza e facilità di beva.
Comunque, oggi e qui, parliamo di Malvasia (Collio).
Solo acciaio per questa etichetta.
Un naso quasi timido nel mostrare la sua reale complessità
Un florilegio di magnolie apre il campo alla mela (Golden) e, perchè no, pure un po’ di pesca.
La terza fila è vegetale di campo ed aromatica di erbe, pur non celando accenni di nocciola tostata ed un amaricante agrume (arancia amara e lime).
Assaggio di coerente varietalità, interessante nel suo affiancare struttura e morbidezza ad una dritta freschezza in cui dice la sua il sapido richiamo di un mare sepolto.
Forse non “LA” Malvasia, ma capace di “acchiappare” con le sue pudiche eleganze.
In enoteca a circa 13€