Oggi Vi racconto di un vino per il quale sono stati spesi fiumi di parole e per il quale le mie, poche ed inadeguate, saranno senz’altro superflue.
E Vi racconto di un vino NON per volermi lasciar trascinare dalla corrente, ma perchè il “come” mi è stato concesso di assaggiarlo, in qualche modo me lo impone.
È una Storia che capita a chi, nel suo curiosare, ha la fortuna di imbattersi in Uomini che conoscono il significato di parole come Lavoro, Qualità, Storia, Territorio, Rispetto…
E della possibilità di scrivere le parole che seguiranno devo dunque ringraziare l’Uomo ancor prima che il Produttore che me lo ha offerto e di cui non Vi svelerò mai l’identità (almeno non prima che abbia scritto anche di lui).
Veniamo però alla bottiglia tralasciando volutamente quanto saprete sicuramente già a memoria sul “chi”.
Il “dove” è difficile da inquadrare.
Il Collio goriziano, la Brda (quello sloveno)…qui a Oslavia i confini sono solo per gli Uomini, chè la Natura non ne conosce
HUM e RUNK non sono i personaggi di una saga “Tolkien style” ma i due vigneti di Joško Gravner e loro, i confini non li tracciano, semmai li cancellano.
HUM è la storia, RUNK è il presente (vabbè: quasi).
In entrambi la Ribolla racconta la terra in cui affonda le radici come nessun altro saprebbe fare: da essa nasce, in essa muore e diventa vino.
Niente legno: anche per lui solo terra(cotta) come da millenni.
Ad Hum e Runk, l’uomo serve solo per accompagnare in bottiglia l’armonia della natura.
La bottiglia si inclina, il calice si riempie, tutto avviene con disarmante semplicità eppure…
Forse è un pochino freddo, ma non ho fretta e lo faccio tornare a quella temperatura cui da lungo tempo si era abituato e che mi sembra essergli più consona.
Henri Cartier Bresson diceva che “fare una fotografia significa allineare la testa, l’occhio ed il cuore”.
Beh, qui mi sembra di poter dire che Joško ci faccia allineare le emozioni provate da occhi, naso e bocca nell’unità dell’assaggio.
Luminoso d’ambra del Baltico, offre al naso agrumi di candita dolcezza e poi datteri, frutta secca sotto miele e orizzonti d’Oriente in quel curry che precede piccantezze, ricordi d’incenso e lo sfogo di una arrembante mineralità.
Pasticcera la chiusura, burrosa ed elegantemente boisè.
L’assaggio è il filo di una lama e lo schiocco di una frusta.
Caldo ma reso lieve da una strapiombante freschezza, a stento tenuta a bada dalla sapidità.
I tannini ci sono, dicono la loro e rendono masticabile un sorso che sa di ribellione,
Pulito ma ancora distante da una potenziale eleganza.
Semplicemente vino.
E non è poco!
Il prezzo?
Alto, ma giudicatene Voi la correttezza.