Di Giuliano (Pettinella) ho già detto (avvocato marchigiano di genitori “silvaroli” che sembra aver ormai perso la causa versus il vino).
Non posso però non ribadire ancora una volta l’eleganza della sua modestia, il suo costante approcciarsi in punta di piedi anche là dove dovrebbero essere squilli di tromba.
E quello sguardo…vispo, curioso, esploratore.
Uno sguardo che ben rispecchia il ribollire di un animo gentile in cui studi, conoscenze acquisite ed artigianalità si mescolano e quasi per magia finiscono in bottiglia.
Si, perché i vini di Giuliano (e di sua moglie Francesca) sono come lui, consapevoli, concreti.
Solo Montepulciano l’uva con cui li produce e due le declinazioni (una più rossa ed una “meno”).
La seconda delle due si chiama “TAUMA” come “gemelli”.
Gemelle le figlie e gemelle le vigne (stesse dimensioni, stesso numero di ceppi).
“ROSATO” fino alla 2020 è oggi “CERASUOLO”, quasi a confermare che, prima o poi, la Storia del vino abruzzese doveva incrociarla per forza.
Due mesi fa, assaggiato alla cieca gli ho dato 85? punti (ma col punto interrogativo, si noti bene).
Sono pochi?
Sono stato troppo severo?
Boh, forse si ma quando si è ancora sconvolti dall’assaggio di una 2012 di cui Vi invito a leggere qui è difficile ritornare con i piedi per terra.
Vero è che l’ho riconosciuto subito, come fosse un vecchio amico (anche se prima d’ora non l’avevo mai incontrato), fratello (e non minore) di quel Montepulciano di cui pure ho già scritto (qui) e a cui sembra “aver staccato la capoccia” come nella migliore tradizione di consanguineità.
Epperò quel giorno c’era qualcosa che ancora faceva rumore, come fosse un dado allentato, un impianto hi-end che necessitava di un fine tuning.
Ed anche ora che mi trovo a volervelo descrivere sto davvero in difficoltà.
Perché comunque mica è facile dire di un vino che non può essere inquadrato in una precisa categoria.
Sicuramente direte: “Ma dai! È un rosato”!
See, troppo facile!
Ché già il colore è “‘nsomma” e poi il naso!
Dove lo mettete quel naso che Vi spiazza?!
Da una parte l’urgenza del bere (quasi fosse un bianco in cui annegare l’arsura di questo Luglio infernale” dall’altra la coscienza che impone calma di fronte al sabba di emozioni.
Figlio dell’Adriatico e della Majella, racconta dei pendii riarsi di Monte Amaro e delle ampiezze sabbiose di Silvi Marina sovrapponendo come pagine di un libro calore e freschezza, sole e sale, frutto carnoso e iodio.
Scarno nei descrittori (come si conviene ai racconti contadini) narra con rigore un po’ rustico la propria storia tirando fuori pian piano spezie e caffè (?) da un plot di lamponi, ciliegie e melograno.
Il sorso conferma l’olfatto ma alza il volume, ciò che era sottaciuto diventa tattile, concreto, sul palato e sulla lingua.
La freschezza vuole dominare ma la minerale sapidità diventa reale piccantezza ed allora sono sportellate tra un agrume fresco-amaro (che è quasi chinotto) e ben più di una idea di oliva (cui manca solo la salamoia).
Un tocco di frutta secca ed una folata di lievito accompagnano poi un finale in cui è di nuovo la ciliegia a condurre le danze.
Ed allora perché quel punteggio così striminzito?!
Beh, magari mi sbagliavo, ma mi sembrava ci fosse bisogno di un po’ più di quel vetro che, da bravo direttore d’orchestra, armonizza il tutto (poi magari il direttore è Edgar Varese ed allora: “St’appost”).
Oppure avevo (ed ho ancora) solo bisogno di assaggiarlo con più calma…
Ci proverò (anche se io non ne ho e di bottiglie ce ne sono talmente poche che…).
Non costa pochissimo ma ogni tanto si può fare uno strappo alla regola.
Da bere ascoltando “BOLERO”, quello di Ravel ma nell’interpretazione di Frank Zappa.
p.s. mannaggia Quest’Estate l’ho lisciato di poco a casa mia in Friuli quando in una degustazione a Fusine Laghi l’hanno inserito “misteriosamente” (ma poi neppure troppo) tra i “rossi” estivi.