Introduzione all’oggi
Si deve parlare di “Cultura del vino” oppure è più corretto affermare che “il vino è Cultura”?
Ben conscio di addentrarmi in un ginepraio e con la quasi certezza (e forse una segreta speranza) di sollevare un mare di polemiche, mi provo ad analizzare se si possa parlare o meno di una visione “vinocentrica” del sapere.
È un tempo complicato quello che stiamo vivendo, chiusi forzatamente in casa con poco da fare e poca voglia di farlo.
È un tempo di tutorial, in cui ciascuno si improvvisa detentore del sapere e vuole mettere a parte del tutto il mondo intero.
È un tempo virtuale già da parecchio ma, parlando di vino (che già di per sè presuppone una buona dose di “virtualità”) siamo arrivati ora all’apice della curva.
In primis ed in divenire
Per millenni il vino è stato un alimento ed a nessuno sarebbe venuto in mente di parlarne al di fuori del contesto della tavola.
Sono poi arrivati gli anni ’70, quelli in cui persone di sapere (veramente curiose) hanno avuto il coraggio di affermare che il vino di nonno, il vino del contadino, faceva schifo e, con questo, abbiamo iniziato a scollegare la bevanda dal cibo investendola di una propria “dignità” e mettendola al centro dell’attenzione.
Sono arrivati i “sommelier”, quelli che al tempo di Napoleone scaricavano il vino dai cavalli e che improvvisamente sono divenuti depositari del sapere e, assurti a sacerdoti di un moderno dio Bacco (o Dionisio se preferite una visione ellenistica), hanno iniziato a riempire le proprie bocche e le nostre orecchie di termini nuovi professando una nuova fede.
Nel breve tempo c’è stato un florilegio di acronimi ed associazioni in cui ciascuno cerca di tirare l’acqua al proprio mulino seguendo il principio dell’“io so’ mejo de te”!
Ogni associazione una guida, ogni guida uguale all’altra, stessi vini stessi giudizi.
Ma il vino non è matematica nasi e palati sono diversi, ognuno il suo.
Guide ed assaggi
Le guide dovrebbero “guidare”, ma avrete notato che le “destinazioni” sono sempre le stesse e sta a Voi uscire dalle strade più trafficate ed imboccare i vicoli della scoperta.
Se non sarete curiosi continuerete a bere i vini che raccontano gli altri limitandovi a condividerne il giudizio.
La cultura è curiosità prima e conoscenza poi, e limitarsi ad assaggiare quello che si è letto nel mare magnum delle guide è un po’ come leggere la soluzione di un cruciverba nelle ultime pagine de La Settimana Enigmistica: inevitabilmente sarete d’accordo con il relatore.
Chi parla di “cultura del vino” propone l’astrattezza delle etichette.
Proprio quelle etichette che si bevono oggi nelle degustazioni “virtuali” cui il COVID-19 ha dato il LA.
Il domicilio coatto mi ha dato modo di assistere a diverse presentazioni e…
Ognuna di queste, tralasciando il fatto di negare di per sè il piacere e l’importanza della condivisione, ha presentato il packaging (generalmente di augusta stirpe) dimenticandone il contenuto ed astraendolo dal proprio contesto storico e territoriale.
Quanti di Voi sanno (e sono interessati a sapere) che a Bolgheri, oltre ai “cipressi in duplice filar” (cit.), c’è uno degli allevamenti di purosangue più famosi al mondo? Incisa della Rocchetta è più famoso per il vino o per quel campione che è stato Ribot (ma chi era poi costui?).
E allora?
Assaggio per conoscere
Allora c’è la necessità di ritornare a parlare dell’etichetta vera.
Che NON è quella grossa sul fronte della bottiglia, quella classica della Toscana e del Piemonte o quella artisticamente ardita di molti produttori di vini “naturali” (meglio poi che non mi addentri, almeno per ora, in discorsi su questi), ma quella che rappresenta il vino per il lavoro che è, quello che è proprio dell’uomo, di quell’uomo che opera in un territorio cercando di interpretarlo.
Sulla base di questo si dovrebbe assaggiare un vino.
Sentire il vulcano nei vini di Bruno Ferrara Sardo, guardare il mare in un bicchiere dell’Azienda Agricola Arrighi, addentrarsi nel bosco di una bottiglia di Refosco di Giovanni Dri, questo è assaggiare.
Un mio amico, grande produttore di oli EVO e vini, mi disse una volta che “non si può capire un vino se non si vede prima il vigneto da cui proviene”.
E Voi, sul posto, ci siete mai stati? Andateci! Chi ci trovate? Un produttore che mette nel bicchiere un territorio che sarete ancora più curiosi di esplorare.
E poi, se proprio ci tenete, fate finta di riconoscere i sentori di pelo di cane bagnato o di spina di agave o d quel che vi pare in quel sorso che altro non è se non il risultato finale di quello che i francesi (di questo rendiamogli merito) definiscono terroir.
Curiosità e conoscenza
Se sarete curiosi, scoprirete che intorno al vino ruotano storia e storie e andrete ad approfondire.
Etruschi, Greci, romani, ognuno aveva il proprio concetto del vino.
C’è stato chi ha sperimentato, chi ha migliorato e chi ne ha fatto strumento di conquista e di potere economico (più o meno nell’ordine nel quale li avete letti).
Dalle barbatelle che i legionari romani portavano con sè andando alla conquista del mondo, all’incredibile storia dell’Ammiraglio Nelson e del Marsala, il vino può essere la scusa per riprendere in mano i libri e ricominciare a conoscere Storia, Geografia, biologia, chimica (io ho ripreso i libri di chimica-fisica per il mio nuovo trip sulla pasta).
Certo che se poi volete ridurre il vino alla sola composizione dei suoli di Condrieu, o alle sottozone di Margaret River oppure al residuo zuccherino dei tre stili di Rhuterglen…beh: non capirete mai niente di vino, sarete semplicemente delle persone che “sanno tutto di tutto e questo è tutto quello che sanno”.
Detto questo e tralasciando un sacco di altre cose, concludo che “il vino è cultura” ma che se vorrete continuare a parlare di “cultura del vino” sarete liberissimi di farlo, tanto io continuerò a bere senza conoscere e per conoscere.