È il 2016 quando, al seguito del Giro d’Italia, arrivo a Pinerolo e mi metto a cercare disperatamente una bottiglia di questo vino.
Ricordo bene l’interesse (e direi anche lo stupore) dimostrato da un enotecario (grazie di cuore all’Enoteca il Grappolo di Massimo Resiale) che, non avendolo in assortimento, si lanciò in un lungo giro di telefonate tra i suoi “colleghi” fino a quando non riuscì a pescarne uno che ce l’avesse (e grazie anche a Baccoghiotto Pinerolo).
Sinceramente non saprei dire quando sentii parlare per la prima volta di questo vino che prende il nome probabilmente dalle cataste di ramaglie che venivano fatte disboscando una zona per dedicarla alla viticoltura.
Di sicuro mi colpì il fatto che già dal nome si percepiva un legame strettissimo con un Territorio che, dopo la fillossera, vide progressivamente scomparire quelle viti che venivano storicamente propagate per propaggine.
Comunque è una D.O.C. dal 1996 e lo fanno nel pinerolese, tra Perosa Argentina e Pomaretto mettendo insieme varietà autoctone ed antiche come Avanà (ne risentirete parlare presto a proposito di un’altra Azienda da poco scoperta e di cui avete già letto qualcosa), Avarengo, Chatus, Becuet, testardamente coltivate e protette da uno sparuto gruppo di produttori tra cui DANIELE COUTADIN.
Daniele sta proprio a Perosa Argentina, nel territorio della Val Chisone.
800 metri slm e 1ha di terreno comprato nel 1995 dai suoi genitori proprio per la voglia di fare il vino e salvaguardarne la storia.
2000 bottiglie l’anno, non di più.
Minimi interventi in vigna, inerbimento e niente aratro.
In cantina solo vinificazioni spontanee, lieviti indigeni e niente solfiti: in pratica un vino come quelli di cui normalmente non vado in cerca ma che in casi come questi sarebbe dannatamente sbagliato non prendere in grande considerazione.
Finendo l’ultima (ahimè, è proprio l’ultima) bottiglia di questa chicca enologica, non posso che rimanere ancora una volta interdetto di fronte all’immediatezza di un prodotto che a mio avviso nulla avrebbe da temere dell’attesa.
È un vino come piace a me, di quelli che te ne servirebbe una seconda bottiglia e che non ti fanno venire il tunnel carpale a furia di roteare il calice.
Fresco, deciso, tannini vispi ma non aggressivi, pronti per una interessante evoluzione.
In bocca c’è il bosco, con i suoi piccoli frutti rossi l’ombra e le foglie sotto i piedi, il tutto avvolto da una delicata speziatura.
Una struttura giusta, non invadente; lungo quanto serve per arrivare al secondo bicchiere ed accompagnare un succulento tagliere di salumi e portarci poi senza problemi a fine pasto.
Difficile da trovare, ma se ci riuscite, in enoteca, ahimè, sta un po’ sopra i 20€.